Quella donna aveva qualcosa in mente. Lo capii subito dal suo odore. Aveva quell’odore che hanno le donne quando devono incontrare qualcuno d’importante. Il resto di lei era anonimo invece. Avete presente quell’anonimato così sfacciato che è come una prova inconfutabile di reato? Beh, quell’anonimato lì. E se ne stava lì nell’ascensore, quasi immobile, nell’angolo opposto al mio. Ogni tanto scuoteva la testa, poi si passava una mano fra i capelli. Il suo piano, il quarto, arrivò. L’angolo della sua bocca tradì un sorriso. Curiosamente la bocca non era l’unica parte di lei pronta a tradire, pensai. Le porte dell’ascensore si aprirono. Lei spiegò l’innocenza delle sue ali da farfalla, poi strisciò velocemente lungo il corridoio svanendo dietro l’angolo.

Poco importava ciò che lei ostentava al mondo, ormai sapevo tutto di lei.

E Comunque conoscevo il suo amante, oltre che il marito, quindi tutte le menate investigative che state leggendo lasciano il tempo che trovano. Stavo dicendo?

Sì, giusto! I dettagli, la mia ossessione.

Lo pensai mentre camminavo verso il pub. Ero sempre stato attratto dai dettagli. Le grandi evidenze invece no, le avevo sempre considerate sfacciate, quasi volgari nel loro palesarsi. Questo faceva si che, dopo una rapida occhiata generale, l’occhio della mia sensibilità cercasse quei ritagli di corpo o d’espressione che, a mio avviso, contenevano la radice stessa dell’io di qualcuno. E quello io cercavo, l’io. Il mio intendo, non quello degli altri.

Intanto Londra parlava la sua lingua metropolitana, ed era una cornice fantastica per i miei pensieri. Arrivai al The Finsbury, poi entrai.

Una volta seduto al bancone ordinai una birra, estrassi il mio taccuino, la mia penna e così iniziai la mia danza.

Osservare. Bere. Pensare. Scrivere, di tanto in tanto. E bere, soprattutto.

Erano mesi ormai che non riuscivo a stare un po’ in pace. Mi mancava qualcosa di me e pensai che l’alcool mi avrebbe aiutato a rilassarmi, oltre che a ritrovarmi. L’antitesi di un pensiero piuttosto comune, perché l’alcool solitamente lo si usa per smarrirsi più che per ritrovarsi, ma ignorare l’altra faccia delle situazioni è una leggerezza da non commettere mai.

Fra la terza e la quarta pinta di birra la porta si aprì. E lei entrò.

Si mise a sedere li, non troppo lontano da me.

Fuori luogo, pensai. Sfacciata, pensai. E pure volgare, nella sua evidenza.

Ero curioso però, quella era la prima volta che ci trovavamo così vicini, fuori dall’ascensore intendo. Mi sentivo quasi imbarazzato a guardarla, come se stessi osservando un segreto messo a nudo. Mi ricomposi quasi subito, d’altronde non ero io a tradire qualcuno.

Lei si voltò. Io le sorrisi sinceramente. Non so il perché, lo feci e basta. Lei ricambiò il sorriso, falsa com’era.

Nulla di ciò che avrebbe potuto fare o dire quella donna sarebbe sembrato vero ai miei occhi, d’altronde sapevo tutto di lei.

Con buona probabilità stava ammazzando il tempo prima di tornare a casa dopo un po’ di sano sesso extraconiugale. Io non sono un Santo, intendiamoci, ma tendo a lavorare di fantasia in questo genere di cose, e lo faccio dando i connotati più squallidi e superficiali di cui sono capace. E sono capace d’immaginare un bel po’ di squallore, credetemi – più o meno tutto quello che ho vissuto, raramente mi spingo oltre.

Eppure non sembrava aver goduto così tanto del tempo passato in compagnia del suo amante.

Tutto bene?, le chiesi. Non so il perché, lo feci e basta.

Certo, disse lei. Poi mi sorrise di un sorriso così vero, ma così vero, che avvertii immediatamente che era solo di facciata.

Brava, pensai, ma non abbastanza.

Perché lo chiedi?, aggiunse dopo aver sorseggiato un po’ di quel qualcosa che aveva nel bicchiere. Tradiva un interesse per quei dettagli che, evidentemente, sapeva di non riuscire a nascondere come avrebbe voluto.

Amava i dettagli, proprio come me, solo che io ero un po’ più allenato, o forse solo più intelligente.

Rimasi in silenzio a fare quello che so far meglio: osservare. Catalogare. E tradurre.

Allora?, insistette.

Non saprei di preciso, dissi con calma, ma porti con te quella leggera tristezza che hanno le persone che han perso qualcosa per strada.

Lo so, non è proprio il genere di cosa da dire a una donna in un pub, soprattutto se è la prima volta in cui ci parli davvero in vita tua. Non so il perché lo feci, lo feci e basta.

Lei fece un sorriso, e nel farlo inclinò il capo verso la spalla destra, come a richiudersi in se stessa per avvertire un po’ il calore di una vita sempre più spenta.

È vero, è un po’ che ho perso la felicità!, replicò in modo secco, ma sincero. Poi bevve un sorso di quel qualcosa che aveva nel bicchiere. Era decisa.

No, non intendevo questo!, replicai. Lo feci giusto per non tradire l’imbarazzo che provavo per quella sincerità inaspettata  che lei mi aveva così spudoratamente rivolto.

E cosa allora?, disse lei.

Essere tristi per aver perso la felicità è una conseguenza alquanto scontata, le dissi. No, non è tanto la felicità, quanto la capacità stessa d’immaginarla, semmai.

Lei mi guardò, in silenzio.

Si diventa voraci e insensibili quando si perde una cosa del genere, e si tende a cercarla ossessivamente in ogni cosa che sia a portata di braccio, sia anche la più stupida. Come riempire un vuoto con qualcuno che ha solo il potere di alimentarlo, per esempio.

Pensare di poter essere felici, talvolta, è più importante che esserlo veramente, mi dissi fra me e me, senza staccarle gli occhi dagli occhi.

Dopo quelle parole ci osservammo per un tempo noto solo a noi. I secondi, i minuti o le ore non sarebbero stati sufficienti a misurare la durata di quello sguardo. Forse la Verità, sì ecco la Verità, forse quella poteva essere la misura giusta per quello sguardo, ma era quella Verità che raramente esiste fra un uomo e una donna.

Un dettaglio, questo, di una rara bellezza.

Parlammo di tutto, dopo quello sguardo, ma era un tutto che riguardava solo ciò che è materia d’amore.

Solitudine. Attese. Segreti. Colpe. Silenzi. Dolore. E la felicità che fu.

Sono molte le donne che provano invano a lasciare un’impronta sul mio cuore, pensai, ma lei no invece, lei non ebbe bisogno di tempo per riuscirci, tant’erano sporche le sue dita. E fu proprio in quel momento che fui avvolto da uno strano senso di compassione verso la sua vita. Provai un interesse più generale. Non c’era più la piega della sua bocca, il suo odore, il modo in cui muoveva la mano, i suoi capelli o il suo sguardo, era tutta la sua vita il dettaglio che m’interessava. In quel momento era come lo scrigno dei dettagli del mondo, e divenne interessante e attraente e rara e folle di una verità tutta sua, ai miei occhi.

Aveva la teatralità dell’innocenza più sfacciata e la verità di un gesto semplice e sincero.

L’orologio del pub segnò l’ora. Non so bene il perché, ma lei s’irrigidì di colpo.

Io la fissavo. Lei mi fissava. Immobili. E in silenzio.

Nel mio sguardo c’erano solo due parole. Solo due, feroci, parole.

Non lasciarmi.

Senza dire nulla si alzò e uscì dal locale.

Fu incredibile per me scoprire come quella donna, sempre così attenta ai dettagli per cercare di nascondersi meglio, fosse così cieca alle evidenze degli altri.

Uscii. Era buio, là fuori.

La luce d’angolo creava un punto di convergenza per le nostre ombre. Erano l’una sull’altra quando le dissi ciao. L’una sull’altra formavano un’unica cosa, ma non più grande dei singoli, purtroppo.

Una macchina si avvicinò dalla mia destra e si fermò a neanche un metro da noi. Le nostre ombre, come amanti esperti, si divisero e divennero due parallele. Nessun contatto, ma con un orizzonte comune.

Seguii il suo allontanarsi con il solo movimento della testa, come se tutto il resto del corpo, occhi compresi, non potesse cambiare posizione. Guardai i fari di quella macchina e mi persi nella luce che nascondeva tutto ciò che avrei voluto continuare a vedere. Pochi secondi, giusto il tempo di salutare il marito e la macchina ripartì.

Avrei giurato che c’era un velo di tristezza negli occhi di lei, così come avrei giurato che un angolo del suo sguardo si  fosse rivolto a me, ma la verità è che non la vidi.

I fari posteriori dell’auto mi riportarono alla normalità della mia vita, come la macchina riportava lei alla normalità della sua.

Nel silenzio di quella strada imparai di come la luce sappia dividere ciò che la notte, talvolta, unisce e capii che la vita intera è solo un dettaglio di qualcosa di più grande, ma chissà poi di cosa…

Guardai Wood Green Street e la immaginai come una piccola ruga espressiva del volto di quella città, tuttavia non capii se stava ridendo o se era triste.

Delle ragazze che stavano entrando al pub mi guardarono e mi rivolsero un sorriso. Io ricambiai, fiero.

Quella notte avevo negli occhi la sicurezza di chi ha una qualche Verità nel cuore, e nessuna paura di usarla.

4 Comments

  1. “Quella notte avevo negli occhi la sicurezza di chi ha una qualche verità nel cuore, e nessuna paura di usarla.” Boia…

    Senza parole… finalmente sei tornato!

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